No al superlavoro, sì all’engagement dei dipendenti

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I livelli di superlavoro richiesti in alcune aziende possono impattare negativamente sui bilanci. Lo sostiene Jeffrey Pfeffer, autore del libro “Dying for a Paycheck” (Morire per uno stipendio).

Purtroppo pare che i governi ignorino quella che è a tutti gli effetti un’emergenza che riguarda la sanità pubblica.
Un software engineer della Uber, che prendeva uno stipendio a sei cifre, si è ucciso nel 2016 e la famiglia ha citato in giudizio l’azienda ritenuta responsabile. Uno stagista 21enne della Merrill Lynch è svenuto (e poi morto) negli uffici di Londra dopo aver lavorato per 72 ore consecutive. Quando la Arcelormittal ha venduto uno dei suoi impianti che produceva acciaio, un 56enne, impiegato di vecchia data, è morto di infarto a causa dello shock. E l’Agenzia Europea per la Sicurezza sul posto di lavoro ha riferito che più della metà dei giorni lavorativi che vengono annualmente persi per malattia sono imputabili a “stress”.
Nel 2015, un’analisi comparata di più di 300 studi ha rilevato che in alcuni posti di lavoro si mettono in atto delle modalità pericolose per la sopravvivenza. Queste pratiche includono lavorare ben oltre le ore previste da contratto.

Che sta succedendo? Davvero alcuni posti di lavoro che, in teoria, non dovrebbero essere ritenuti minacce per la vita, sono in realtà pericolosi? E pensare che niente di tutto ciò sarebbe necessario, perché tali abitudini sono pessime sia per i lavoratori sia per le aziende. Gli orari prolungati continuativi risultano infatti in una diminuzione della produttività.

Il libro che sta facendo così scalpore nel mondo anglosassone (da noi arriverà fra qualche settimana) spiega che responsabilizzare e dare maggiore controllo su come e dove vengono svolte le proprie mansioni aumenta la motivazione e il livello di engagement dei dipendenti, a qualsiasi livello. Infatti, sono proprio i lavoratori più stressati quelli che tendono a licenziarsi e il turnover costa parecchio. Ed è ovvio che un dipendente stressato, malato, che non sta bene è un danno per la produttività.
Ma se finora erano molto pochi i capi che capivano di avere in mano il benessere e la fiducia dei propri dipendenti, oggi le cose stanno cambiando.
Aziende come Google, Patagonia, Collective Health, SAS Institute, John Lewis Partnership e Zillow forniscono esempi illuminanti.
Le persone sono pagate anche per prendersi delle pause e ci si aspetta che questo tempo libero venga utilizzato per non lavorare. Le pause vanno fatte. I manager hanno smesso di inviare mail e messaggi a ogni ora del giorno e della notte. Le persone vengono trattate da adulti responsabili, in grado di avere controllo sulle proprie azioni in modo da consentire loro di raggiungere l’obiettivo dato nei tempi e nei modi ritenuti in autonomia più adatti. E l’aspetto che più conta sono proprio le relazioni umane positive ed efficaci, in modo che un dipendente prenda seriamente in carico le proprie mansioni perché deve rispondere a se stesso e a qualcuno con cui si relaziona personalmente.

Il mondo del lavoro sta cambiando e ora si cerca sempre più un lavoro presso le aziende non solo per lo stipendio e le opportunità di carriera ma sulla base della rispondenza ai propri valori, stili di vita, salute. I manager dovrebbero misurare non solo la produttività e il fatturato ma anche lo stato di salute e il benessere dei proprio dipendenti.
E certamente i governi dovrebbero preoccuparsi maggiormente di questo aspetto, focalizzando l’attenzione sui costi generati per lo stato dallo stress lavoro-correlato.

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